I lavori del gatto Arnulfo - Miguel Angel García
Versione italiana di Susana Bonaldi
Arnulfo abitava con un matrimonio di vecchi umani che si
conservano abbastanza bene, in alto di una casa antica, confortevole e piena di
libri del quartiere di Almagro. La casa stava situata in un isolato di
edificazione bassa, con l’eccezione di due edifici di appartamenti. I tetti
erano pertanto quasi allo stesso livello, creando un terreno favorevole,
tuttavia non senza insidie, alla circolazione dei gatti.
Come quasi tutti i giorni Arnulfo risalì la scala di ferro,
spiralata intorno ad una colonna, fino al terrazzo, appostato con la pancia
sfiorando gli scalini, come chi penetra in terreno scoperto. Quando arrivò
all’ultimo scalino rimase congelato, con gli occhi al livello del pavimento del
terrazzo, e passò un bel po’ di tempo spazziando tutto con la vista. Alla
ricerca di movimento. Non ce n’era, ed entrò con un passo furtivo ma quasi
normale. Si gettò di lato al suolo al
centro dello spazio, e seguì con gli occhi la fuga delle due tortore e del
zorzal –tordo, che avevano individuato la sua presenza predatrice.
Dopo un po’ di tempo, nel quale si riposò con gli occhi
semichiusi, s’incorporò, girò intorno ai vasi annusando senza novità di rilievo
ed arrivò fino al basso muro del perimetro. Con un balzo elegante salì sul
bordo, e di nuovo si congelò guardando i tetti vicini. Fu una lunga spazziata
visuale, fermandosi in ogni punto nel quale si producesse movimiento, di solito di colombe. Osservò con maggiore
attenzione lo sbattere di uno straccio agganciato su una punta di ferro ed
agitato dalla lieve brezza.
Diversi minuti dopo si ritenne soddisfatto; sui tetti non
c’era nessuno, se si eccettuavano gli uccelli; nessuna persona, nessun gatto
nessun cane. Discese allora rapidamente, attraversò il terrazzo in diagonale
fino allo spazio sotto il serbatoio dell’acqua, balzò su una traversa di
sostegno del serbatoio e s’infilò al di sotto fino ad arrivare sul bordo del
terrazzo da quel lato. Si amplificò la sua visione al tetto della casa, una
lunga superficie di lamiera scanalata, bene installata e bene impermeabilizzata, che copriva la fila di
abitazioni che si aprivano sul corridoio laterale. Dedicò un breve sguardo
distratto all’edificio alla sua destra, uno dei due con diversi piani, dove
abitavano tre piccoli cani ed un gatto dormiglione e casalingo, che non aveva
possibilità di uscire sui tetti. Sapeva che non c’erano novità in quella
direzione. E si concentrò sul terrazzo senza accesso che era il tetto
dell’abitazione con finestre sulla strada, il salotto, coperto da grandi e malmesse
mattonelle che un giorno furono rosse.
Dopo alcuni minuti di osservazione si ritenne soddisfatto,
balzò sul cornicione divisorio e camminò rapidamente fino al dislivello dove
iniziava l’inutile terrazzino, separato da una rete metallica bucata dalla casa
sul lato sinistro. Con un saltello elegante salì sul terrazzino, trotterellò
fin dove poteva guardare la strada, che non gli interessava. Si spostò a
sinistra fino alla rete metallica, e tornò indietro fino ad un punto dove c’era
una breve estensione di tetto di lamiera, corrispondente all’entrata di sotto,
e che si affacciava sul cortile interno, nel pianterreno.
Nella dimensione dei tetti quello spazio era il suo sancta
sanctorum, la sua latrina personale, con diversi residui fecali di gatto che si
asciugavano al sole. Annusò un poco e, soddisfatto, s’inarcò e procedette a
defecare. Dopo si diede una scossa, e grattò sulla lamiera producendo
un’immaginaria pioggia di terra per coprire i residui. I Gatti urbani amano la
virtualità non meno degli umani.
Tornò a girare lo sguardo per controllare lo spazio
circondante, e in quel momento vide la Gatta, che lo guardava dalla sua
postazione, sul tetto accanto, a una decina di metri alla sua destra.
La Gatta si girò ostentosamente e inchiodò la vista sul
palazzo all’altro lato della strada. Arnulfo alzò rigidamente la coda formando
un segno d’interrogazione, fece un mezzo giro e tornò con un passo elastico e
dignitoso verso il terrazzo di casa sua. I due finsero di non vedere l’altro.
Nella cultura gattesca non è inusuale fare il tonto per risolvere una
situazione imbarazzante.
Arnulfo arrivò fino al centro del terrazzo di casa sua, e si
gettò sul pavimento, aspettando che la Gatta arrivasse. Ma nel frattempo
risuonò un miagolio che sembrava il ruggito di una tigre, con un qualcosa di
disperazione e di odio.
Proveniva da sotto e dal fondo, dietro l’inferriata che
separava la casa di Arnulfo dalla casa in fondo, che si affacciava sulla strada
a destra dell’isolato. La Gatta dubitò, fece mezzo giro e corse verso uno dei
suoi misteriosi rifugi. Arnulfo lanciò un miagolio lamentoso, osservò la fuga
della Gatta e saltò verso la scala a chiocciola di metallo. Guardando fra gli
scalini vide l’altro Gatto, che soffiava e strillava fra i pezzi di legno e di
ferro, i resti di macchine e di apparati in disuso che si presumeva dovessero
impedire che volarano le lamiere in caso di vento forte.
Arnulfo finì di scendere la scala a brevi passettini, e
miagolò in tono lagnoso sulla porta della cucina. Gli aprì la padrona di casa,
che di seguito, mentre il gatto si strusciava contro le sue gambe, riscaldò
senza esagerare un pezzo di pollo cotto, lo tagliò in pezzettini, lo mise nella
ciotola di plastica e lo depositò sul pavimento nel posto del beneficiato.
Arnulfo si dedicò allora a mangiare con lievi suoni di gola che evidenziavano
piacere, mentre pensava alla sua futura siesta sul suo cuscino del salotto.
Arnulfo era un gatto a metà fra due mondi, domestico a casa
sua e selvaggio sui tetti. Dopo alcune ore dei piaceri a porte chiuse: cibo
variato, tiepido e tagliato a bocconi, caldo d’inverno sotto il suo
riscaldatore a gas favorito, fresco l’estate nelle stanze con ventilatore da
soffitto; protettrice compagnia umana, molto apprezzata in presenza di tuoni,
lampi e tutto ciò che sia pirotecnico naturale o meno.
La Gatta e l’altro Gatto provenivano da un luogo diverso, a
circa 40 metri di distanza in linea d’aria. Era stato un conventillo, che si estendeva tortuosa per metà dell’isolato, in
corridoi con la tipica architettura di ringhiera degli inquilinati di Milano,
abitate in ragione di una famiglia per camera senza bagno. Negli anni novanta
fu acquisita da uno speculatore, il quale mise sulla porta un grande cartello
che diceva “pensione” e stabilì una somma mensile per il pagamento del presunto
servizio. Nella crisi del 2001 rimasero disoccupati la maggior parte di quelli
che alloggiavano lì, i quali oppressi dalla mancanza di denaro, di sorte e di
futuro si dichiararono “occupanti”. Quindici anni dopo furono sloggiati dalla
polizia, e caricati su un autobus, seguito da due camion con le loro
appartenenze.
Lasciarono alcuni mobili vecchi, borse piene di vestiti
usati, stracciati e sudici. E anche due Gatti sconcertati. Uno di essi fu
adottato, la femmina, da una parente della prima proprietaria, paraguaiana come
lei. La trattò con amore, nel poco tempo libero che le lasciava il suo lavoro.
Siccome aveva lavoro continuò a pagare per la stanza, perciò non fu sloggiata.
L’altro Gatto, dopo un mese di vagabondare disperato e affamato sui tetti,
ricevette gli avanzi di una vicina pietosa.
Il proprietario, che incursionava nella speculazione
immobiliare, si assicurò che gli sloggiati non ritornassero, con il semplice
anche se brutale espediente di demolire i tetti, e parte dei muri interni,
delle stanze condannate. L’Altro Gatto si trovò in un paesaggio lunare e senza
risorse, in buona parte inaccessibile, allora cercò altri territori, sui tetti
vicini. Arrivò così fino ai tetti contigui alla casa di Arnulfo, dove affrontò
un gattino dell’edificio sindacale delle vicinanze e al gatto Arnulfo, che si
sentiva padrone della parte ovest dell’isolato.
L’Altro Gatto, dopo i soffi e l’emissione di una serie di
strilli feroci, si lanciò sul Gattino con le sue unghie filose spiegate. Il
Gattino evitò l’attacco per un pelo, rifugiandosi sotto un ramo spinoso della
vicina Buganvillea e rimase lì, tremante, mentre l’Altro Gatto preparava un
nuovo assalto. Arnulfo, davanti a tanta violenza,, rimase bloccato, e non
riuscì a fare altro che chiamare disperatamente i suoi umani. L’umano della
casa di Arnulfo, allarmato per la persecuzione al Gattino, si armò di un sasso
quasi piatto di circa dieci centimetri di diametro e lo lanciò con la mano
sinistra (era sinistro) girando con forza e velocità verso l’Altro Gatto, al
quale colpì sulle costole. Dopo mi raccontò che aveva imparato a lanciare
pietre nella sua infanzia, acquisendo una certa eccellenza nella sua arte, e
che, come quando s’impara ad andare in bicicletta, non lo dimenticò neanche da vecchio. È una
memoria del braccio, di nervi e muscoli governati dagli occhi, quasi senza
intervento della parte razionale del cervello.
L’Altro Gatto rimase completamente sconcertato. Già altre
volte era stato scacciato a colpi di scopa o spazzola. Ma questa volta sentiva
lo stesso dolore senza vedere nessuno attorno. Retrocesse lentamente fino a
sentirsi sicuro, dopo scappò velocemente fino al suo rifugio, sotto un
serbatoio dell’acqua. Il Gattino non sprecò l’opportunità; corse per la sua vita,
diventato una palla nervosa che appena toccava il tetto; saltò come un acrobata
sul corridoio che s’interponeva, e scese verso il sindicato, che considerava la
sua casa.
Buenos Aires è una città ordinata e ragionevolmente pulita.
Ma i tetti della zona centro sono caotici e di vetusta sporcizia. Assomigliano
a quei tizi ben vestiti e con scarpe buone, ma con la biancheria sudicia e
logora. Di solito il lato tetto delle case si presenta crudo e macchiato,
coperto da strati geologici di quella sostanza vischiosa e oleosa che scaricano
senza pausa i motori a esplosione. Le lamiere sono mantenute al suo posto con
ogni genere di oggetti pesanti: lavatrici, cucine e frigoriferi fuori uso,
mattoni, oggetti semidistrutti di ferro o di acciaio.
I collocatori di fili elettrici, collegamenti telefonici e
di Internet, antenne di televisione e simili, evitano accuratamente di fissare
con grappe le loro installazioni ai muri o terrazzi; si osserva una giungla di
fili attraversati, a volte in grandi matasse, a volte in archi sciolti e
colpeggianti, a volte in vecchi fili inutili, scollegati, che il vento
trasforma in fruste schioccanti. I collocatori umani, anch’essi dei gatti, lo
fanno apposta: risparmiano una quantità di tempo di lavoro, e rendono molto
difficile l’annullamento dei loro contratti, poiché soltanto loro sanno a quale
ditta e a quale domicilio appartiene ogni filo.
Questo è l’ambiente in cui è nato e cresciuto l’Altro Gatto.
Giocherellava con la Gatta da piccolo, e quando arrivò l’età del calore la
montò tra strilli strazianti. La Gatta restò pregna ed ebbe due cuccioli
maschi. L’uno è morto e l’altro è stato donato al custode della vicina sede
sindacale: era il Gattino. Poco tempo dopo si produsse lo sloggio, e l’Altro
Gatto rimase abbandonato e famelico. Il tentativo frustrato di assassinio del
Gattino, che veramente era suo figlio, fu la sua ultima prodezza. Nei giorni
successivi cominciò a manifestarsi una crudele malattia, fino alla metastasi di
quell’inverno.
La sua vita divenne un permanente dolore intensissimo che
l’impediva di muoversi, di dormire e perfino di mangiare; l’Altro Gatto si
trasformò in un pugno di dolore pulsante e violento. Perse peso fino a
diventare un’ombra che si trascinava con le zampe tremolanti, di una magrezza
incredibile, la faccia ridotta a pelle tirata sull’osso che traspariva, il suo
urlo divenuto un roco stertore. La Gatta annusò il male ancor prima che fosse
percepibile agli umani. Cominciò a eluderlo, soprattutto quando lei era in
calore. Un paio di volte, messa alle corde, reagì a zampate, ferendo il maschio
sotto l’occhio, mentre soffiava furiosa.
La Gatta rivolse la sua attenzione verso Arnulfo,
corteggiandolo, passando sempre più tempo sul terrazzo di casa sua. Arnulfo,
fino a un certo punto corrispondeva. Si
adagiava accanto a lei, miagolando in tono acuto appena udibile, come un
gattino. Se la Gatta, in calore, lo trattava con le brusche cercando di essere
dominata e finalmente montata, Arnulfo fuggiva e si rifugiava di sotto in
cucina, dietro le gambe della sua umana. Questo succese diverse volte. Perché
Arnulfo, sterilizzato molto giovane, era un
vergine senza coscienza di esserlo, che ignorava tutto quello che si
relazionava con il sesso.
Povera Gatta, che doveva scegliere fra un malato terminale,
istintivamente rifiutato, e un maschio vergine senza coscienza di esserlo, che
la rifiutava al momento culminante.
I vecchi umani di Arnulfo, pressionati dai vicini scocciati
dal quotidiano “concerto” notturno dei gatti, e di cattivo umore essi stessi
per il sonno perso, convocarono un esperto, il quale installò una barriera
antigatti semplice ed efficace nella parte più stretta del passaggio usato dai
gatti. La Gatta restò isolata da Arnulfo, dal suo terrazzo e da una
considerevole porzione di tetti. Arnulfo perse lo spazio dei tetti e cantucci
della ex – pensione, la sua ambigua relazione con la Gatta e con gli odori
semisvaniti del defunto Altro Gatto.
Entrambi reagirono indignati,
intensificando i miagolii feroci e piangenti. Ma i gatti sono molto realisti e
adattabili, superano incluso i politici di centro, e le notti nell’isolato
tornarono a essere silenziose, almeno per un tempo.
Miguel Angel García Versione italiana di Susana Bonaldi


